L’Ancora: n. 2 – febbraio 1951 – pag. n. 1-3
Si può far buon uso della salute e della malattia, come si può abusare dell’una e dell’altra.
La salute si raccomanda da sé stessa, e non è necessario dire che essa favorisce la preghiera e lo svolgimento della propria attività nell’ambiente in cui il Signore ci ha posti; non così invece la sofferenza. Per tutti, sani e ammalati, unico è il fine: la propria santificazione. Per tutti ancora uguale è il precetto: « Ama il Signore Dio tuo con tutte le tue forze ed il prossimo tuo come te stesso ». Gli stessi nemici nostri non possono ignorare Dio; essi lo combattono, quindi, implicitamente, lo riconoscono.
La domanda che di solito si pone chi soffre è questa: se il Signore ci ama e ci governa, perché mi lascia così ammalato? Se il Signore veramente esistesse, non permetterebbe tanti dolori.
Il motivo è semplice e quanto mai profondo. Perché? Perché è necessaria la sofferenza per redimere l’umanità.
La creazione e la restituzione dell’armonia, distrutta dal primo peccato dei nostri progenitori, sono frutti dell’amore soave di Dio. Egli ha creato l’umanità senza imperfezione alcuna; tutto è perfetto quello che procede da Dio. L’umanità non soltanto fu creata senza alcuna imperfezione; ma il Signore, nella sua immensa munificenza, le volle aggiungere doni al disopra di quello che potesse esigere la natura umana stessa, come per esempio l’immortalità, la scienza senza la fatica di dover studiare e, quel che più conta, diede ai nostri progenitori il dono della sua amicizia, mediante la quale non soltanto essi erano sue creature, ma ne diventavano anche figli fatti partecipi della divina natura.
Dio, però, voleva che l’uomo, amandolo liberamente, lo servisse per amore, per cui Egli lo lasciò libero delle sue azioni, rispettando così la dignità della natura umana, non essendo infatti meritorio tutto ciò che viene fatto per forza.
L’uomo, invece di continuare ad essere partecipe di tanta bellezza, commise il primo peccato, un peccato di disubbidienza e così, in conseguenza del peccato, perdette tutti quei doni che erano al di sopra di quel che potesse esigere la natura umana e perdette anche ciò che era una pura e liberale donazione di Dio, quale la sua figliolanza. In conseguenza di questo peccato entrò nell’umanità la morte, la sofferenza, il desiderio di commettere il male; in una parola, entrò in noi il disordine. Il dolore quindi non è stato creato da Dio. É stato il capo dell’umanità che l’ha introdotto in questo mondo.
Iddio però, sa trarre il bene anche dal male. Se con la creazione il Signore già mostrava il suo amore verso tutto ciò che creava, molto di più lo dimostra nella redenzione. Non avrebbe potuto Gesù ritrarre l’amore per il peccatore nella parabola del Figliol prodigo se non l’avesse già vista attuato in Dio Padre. Gesù è venuto in questo mondo per parlarci del Padre e per redimere ciò che era stato perduto. Egli come Dio non avrebbe potuto né patire né morire, come uomo invece sì. E per redimere volle scegliere proprio quell’elemento che maggiormente l’uomo detestava: il dolore. In questo modo il dolore da elemento negativo, diventa elemento positivo, da elemento odiato, temuto, diventa prezioso, poiché con la effusione del sangue dell’Agnello Immacolato è venuta a noi la salvezza. Non contento Gesù di redimere l’umanità con atto di amore totale, che si dona fino agli estremi limiti, vuole conservare la linea del rispetto alla personalità che aveva creato, per cui dona all’uomo la possibilità di cooperare con lui a redimere i fratelli, utilizzando l’amaro frutto del peccato, la sofferenza. Questo infatti non soltanto è servito al Figlio dell’Eterno Padre per manifestare a noi la sua volontà di redimerci, ma, siccome il dolore sarebbe durato fino alla fine del mondo, il dolore acquista, nell’amicizia di Dio, la possibilità di continuare la redenzione propria e dei fratelli fino al termine dei secoli. Noi abbiamo così acquistato la possibilità di aiutare i nostri fratelli in qualsiasi parte del mondo essi si trovino, anzi anche, nella Chiesa purgante, poiché con la sofferenza possiamo presentare al Signore i nostri tesori, con cui egli soddisfa a chi ne ha bisogno.
Il dolore ha una funzione eminentemente sociale. Chi soffre è reso partecipe della missione redentiva di Gesù. Il dolore diventa quindi un fattore necessario come quello della vita.
Gesù sempre fu utile a noi, in tutti gli istanti della sua vita, essendo ogni azione da Lui compiuta azione fatta dall’Uomo‑Dio; ma quando, sotto il peso della sua umanità Egli piange, suda, trema, muore, allora è il dolore puro, il dolore nudo in tutta la sua crudezza, che trasformato e deificato, distrugge, ripara, impetra, eleva.
Avrebbe potuto fare diversamente il Signore se Egli, nella Sua sapienza, lo avesse voluto. Ha scelto questo ordine di cose perché così gli è piaciuto e perché così, evidentemente, è bene per noi. Quest’ordine di cose però è un’armonia di infinita misericordia e di infinito amore da parte di Dio, i cui abissi resteranno eternamente imperscrutabili, e costituirà la nostra eterna felicità.
Il dolore come l’amore esisterà fino a che ci sarà vita, l’amore però resterà eternamente, mentre il dolore avrà fine quando cesserà la sua funzione redentiva. Quando il Signore porrà il termine su questi secoli così travagliati cesserá allora la sofferenza; ma questa, nello svolgersi della vita, avrà già avuto una funzione eminentemente sociale: attirare le anime dei fratelli di esilio verso la patria celeste, a cui dobbiamo tendere con tutte le nostre forze.
L’unica condizione per la valorizzazione del dolore è restare uniti a Gesù. Se nel dolore noi non svolgiamo la nostra funzione con Gesù, noi siamo dei falliti. La malattia, considerata di solito un male, in realtà non è così. Il vero male è il peccato. La malattia anziché strapparci alla vita, ci fa perno, attorno a cui gravita la vita e la sorte dei fratelli.
Vivendo noi troppo superficialmente, abbiamo perduto il sapore delle cose celesti, non vediamo più i veri valori. Ci attacchiamo alle forme che ci sfuggono e perdiamo l’unica realtà che ci interessa, Dio.
Nella nostra travagliata esistenza, di fronte al dolore, che bussa alle porte dell’anima nostra, ci ribelliamo tante volte, e domandiamo : « ma perché devo soffrire, perché?»
In certi stati d’animo guardiamo i fratelli sani quasi ci fossero nemici, come del resto anche Dio viene talvolta considerato come il primo nostro nemico.
Stretti dal dolore, corriamo dietro ai piaceri di questa povera vita con più avidità che non da sani. Vogliamo stordirci. Non vogliamo vedere la realtà della posizione in cui siamo stati posti. Ci offendono quelli che vedono in noi le stigmate della nostra sofferenza. Vogliamo godere l’attimo della vita che fugge ed in questa rincorsa affannosa ed affannata perdiamo la vera vita, quella dell’anima, anticipando talvolta anche la fine di quella del corpo.
La risposta alla domanda angosciosa « perché io debbo soffrire », ce la dà Gesù nel sereno silenzio dell’anima nostra: il Signore permette il dolore, perché bisogna riparare. Il dolore frutto del peccato è divenuto un mezzo di santificazione per te e per tutti i fratelli. In paradiso, vedrai il frutto del tuo dolore. Ecco la triplice finalità del dolore da cui scaturisce tutta la bella dottrina sulla sofferenza.
Il Signore ha scelto te che forse non hai peccati da scontare, come ha scelto la sua dolce Madre, Vergine senza alcuna macchia, a restare presso di lui nella sua passione e con lui soffrire per poter donare a te e a tutta l’umanità. Anche tu, come la Madonna, sei caro al cuore di Gesù, poiché anche tu, come Lei, fai la volontà del Padre celeste. Il Signore nulla fa a caso.
Il perché del dolore è quindi un perché bello, un perché che eleva l’anima nostra fino a Dio; è un perché che ci dona la vera libertà e la vera pace.
L. N.
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