L’Ancora: n. 6 – giugno 1953 – pag. n. 1-3

Oltre all’argomento suddetto esiste ancora un altro argomento che proviene dalla sua stessa natura di ammalato che della malattia ne fa una professione. Gli uomini infatti, sani od ammalati che siano, tutti tendono a Dio. Tendono a Dio attraverso un’occupazione che deve servire come mezzo di santificazione propria e di aiuto ai fratelli.
Scegliere un’occupazione piuttosto che un’altra non dipende soltanto dalla volontà, ma da tante cause che rendono l’individuo adatto per una data attività, piuttosto che per un’altra.

Il caso non esiste. Dio, fin dall’inizio dei secoli ha visto e preordinato ogni cosa, pur rispettando sempre la libera volontà dell’uomo e la sua libera cooperazione alla grazia.
Ciò che per noi sembra frutto di occasioni fortuite e quanto mai deboli, per il Signore invece sono i nostri binari che ci condurranno a Lui, se lo vogliamo. Le stesse malattie sono già previste e conosciute da Dio. Dinanzi a Lui tutto è un eterno presente.

E da questa sola considerazione quali fonti di gioia per un infermo: dinanzi a Dio, in un eterno presente ci sono pure i « miei » atti di accettazione e di amore! I miei atti di amore erano pure presenti nel supremo sacrificio della Croce!
Continuando il filo logico, possiamo dividere, molto grossolanamente, l’umanità in due categorie. Prima categoria, le persone che soddisfano all’imposizione data da Dio, all’umanità di fare penitenza, mediante il lavoro, o la propria professione. Seconda categoria, le persone che vanno a Lui mediante la continuazione in loro stessi del sacrificio della Croce. Di fronte a Dio, quest’ultima categoria evidentemente è la più cara. E ciò perché è più rassomigliante al Suo Gesù crocifisso, e perché raggiunge il proprio fine di espiazione più direttamente e magari più abbondantemente in proporzione della carità che la lega a Dio.

Se gli ammalati hanno tanta importanza nel piano soprannaturale ne consegue che essi, oltre tutti i motivi già descritti, hanno una più grande responsabilità qualora le altre creature restino prive dei frutti del loro lavoro. Di fronte a Dio quindi tanto lavora chi va in officina quanto chi resta nel proprio letto, con l’unica diversità che questi arriva al fine più direttamente e con maggiori possibilità di aiuto per gli altri.

Un ammalato che non viva in grazia di Dio è un controsenso, è un disertore, un essere improduttivo.
Se agli infermi incombe l’obbligo di continuare la redenzione, giustamente la società protende verso di essi le proprie mani per avere quanto necessario. Gli infermi sono per così dire gli scaricatori dell’alta tensione che si crea tra Dio e l’uomo a causa dei peccati. Se questi scaricatori non funzionano il danno che ne deriva è enorme per tutta la società.
Se tutti questi scaricatori poi funzionassero alla perfezione, mediante la vita in grazia di Dio, sia da parte di quelli che lavorano sia da parte di quelli che soffrono allora le cose potrebbero andare anche meglio. Però, posto pure che molti dei fedeli non facciano il proprio dovere di fronte a Dio, sta all’infermo compiere la parte di sovrabbondante riparazione per quelli che non amano, che non meritano e attirare così col proprio sacrificio luce e grazie anche su di essi .

Esigono dunque che l’infermo viva in grazia:
1) le sue stesse condizioni fisiche che fanno della sua malattia una vera e reale soprannaturale attività molto elevata;
2) l’amore di Dio, che desidera comunicarsi alle anime e che deve sottostare all’ordine da Lui stesso stabilito della riparazione;
3) le anime tutte, perché se oggi anche peccatrici e ottuse alle vie di Dio, domani, nell’eternità, saranno le prime accusatrici di quelle anime che avrebbero potuto salvarle se avessero compiuto il proprio lavoro di sofferenza.
Ecco perché la Madonna dei tanti problemi che angosciano l’umanità, soltanto della sofferenza ha richiamato i valori costruttivi perché questa è la prima penitenza che può risollevare il mondo da tante miserie.

L. N.