Il divino si riflette con l’incanto più bello nell’occhio umido di lacrime, come l’arcobaleno è molto più bello del cielo azzurro chiaro.
Può sembrare paradossale questa considerazione che il filosofo danese ottocentesco Søren Kierkegaard annotava nel suo diario nell’agosto 1840. Il velo delle lacrime che scende sugli occhi sembra, infatti, offuscare la visione. E invece il pensatore ne celebra la straordinaria capacità visiva, frutto di una purificazione che rende l’occhio dell’anima capace di cogliere il bagliore del sole divino, che non può essere sopportato dal solo occhio razionale asciutto. Fuor di metafora, la sofferenza – che spesso sembra uno schermo opaco che nasconde ogni fiducia e fede – può invece essere un canale privilegiato per incontrare il mistero che è in noi e fuori di noi. Non di rado persone superficiali, attraversate da una lacerazione interiore, si risvegliano dal sonno dell’anima e diventano quasi una nuova creatura. La lacrima può, infatti, essere il segno di una «conversione», nel senso genuino del termine, una torsione dolorosa che lascia alle spalle il fascino tenebroso del male e orienta verso una rivelazione luminosa. Nel Vangelo tutta la storia del mutamento di Pietro, dopo il rinnegamento di Cristo, è in due sole parole: «Pianse amaramente». E secoli dopo, lo scrittore francese François – René de Chateaubriand (1768 – 1848), nella sua appassionata autobiografia Memorie d’oltretomba, sintetizzava così la sua conversione: « J’ai pleuré et j’ai cru », «ho pianto e ho creduto».
[Fonte: Gianfranco Ravasi, Breviario dei nostri giorni]
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