Questo è un libro che parla contemporaneamente alla testa ed al cuore. Avrò pure il pianto facile, ma in un paio di passaggi mi sono commosso davvero. E nel frattempo non ho smesso mai di pensare, perché la storia di Luce e Gabriele – con tutto il suo corollario di personaggi e situazioni – è quello che gli anglo – sassoni chiamerebbero food for thought.
Una provocazione continua, che intreccia diversi problemi aperti. L’approccio verso i disabili, innanzitutto: la cultura in cui viviamo ci regala una zavorra di pregiudizi, ignoranza ed imbarazzo che spesso è più pesante delle nostre migliori intenzioni. Ma non solo: questo libro parla del rapporto tra disabilità ed affettività, del ruolo dei genitori e dell’importanza della famiglia nella vita di ognuno, della ricerca di Dio in un mondo che, oggi, non lo dà più per scontato.
Forse è proprio da quest’ultimo aspetto, il desiderio di parlare di Dio, che tutto è partito. Già dalla scelta dei nomi (Luce, Gabriele, Ireneo), Rita fa capire subito da che parte stia: non solo non lo nasconde mai – è facile, tra una pagina e l’altra, trovare continui riferimenti al Vangelo – ma addirittura lo proclama, alla fine, con un inequivocabile canto di lode. (dalla Premessa di Andrea Sarubbi”).
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