L’Anno santo del 1300: Bonifacio VIII e il primo Giubileo della storia
Mancava la scintilla per far scoppiare l’incendio
«Giubileo», per l’uomo medievale, equivaleva a «indulgenza» e prima che Bonifacio viii — nell’anno 1300 — annunciasse al mondo il grande perdono, la cristianità medievale non aveva mai celebrato un giubileo come noi l’intendiamo oggi. Le affermazioni presenti nella Cronaca del cistercense Alberico delle Tre Fontane, secondo cui «si sostiene che quest’anno [il 1208] venga celebrato come cinquantesimo o giubileo e di remissione», fanno riferimento, con tutta probabilità, all’indulgenza concessa all’epoca da Innocenzo iii a quanti si recavano in processione dietro l’immagine della Veronica. Ché se si fosse trattato di un giubileo vero e proprio le tracce lasciate nelle cronache e nei documenti sarebbero state ben altre, né si potrebbe spiegare per quale motivo lo si sarebbe indetto nel 1208, anno che non segnava nessuna particolare ricorrenza.
Fu Bonifacio VIII, quindi, a dare origine al Giubileo cristiano. Tuttavia, l’idea non nacque nella mente del pontefice e neppure in quella dei suoi stretti collaboratori. Grazie a una fonte di straordinaria importanza, il De centesimo seu Jubileo anno liber (Libro sul centesimo anno o Giubileo) opera di Jacopo Stefaneschi, cardinale diacono di S. Giorgio al Velabro (se ne ha un magnifico esemplare nel cod. G. 3, dell’Archivio di S. Pietro, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), possiamo infatti conoscere gli antecedenti della decisione che spinsero infine papa Caetani a concedere al mondo la «pienissima» remissione dei peccati.
«S’era andata diffondendo una voce — narra lo Stefaneschi — che riguardava l’anno santo, di cui allora si attendeva l’inizio ormai imminente con il numero di 1300. (…) Essa divulgava una promessa: chi si fosse recato a Roma nella basilica di S. Pietro, Principe degli apostoli, avrebbe ottenuto la pienissima remissione di tutti i peccati». Dunque, una voce affiorò e corse tra il popolo: il chiudersi dell’anno centesimo avrebbe portato con sé la promessa di un’indulgenza «pienissima». Lo Stefaneschi ci aiuta a conoscere gli effetti di tale convincimento, anche se pure a lui ne sfugge la causa, o almeno la motivazione immediata, dato che quella prossima o remota stava nella fervida attesa escatologica che per tutta l’Età di mezzo pervase la cristianità per toccare nel Duecento i suoi picchi più alti.
L’attesa c’era già, viva, in prossimità del compiersi del secolo. Mancava la scintilla a far scoppiare l’incendio. «E la meraviglia è questa: quasi per tutta la durata del primo gennaio — riferisce il De centesimo seu Jubileo anno liber — rimase nascosto il segreto della nuova remissione; ma, al declinare del sole, verso sera, fin quasi al silenzio profondo della mezzanotte, i Romani ne vennero a conoscenza: ed ecco il loro accorrere in folla alla sacra basilica di S. Pietro. Si ammassano accalcati presso l’altare, ostacolandosi a vicenda così che a stento era possibile avvicinarsi, come se pensassero che in quella giornata, che tra poco sarebbe finita, dovesse terminare con essa la concessione della grazia, almeno di quella maggiore. E non potremmo affermare senza alcuna incertezza se siano accorsi mossi da qualche sermone mattutino tenuto nella basilica sull’anno centesimo, o giubileo, oppure di spontanea volontà o — ciò che ritengo sia più vicino al credibile — attratti da un cenno del cielo, che intendesse ricordare celebrazioni passate dell’anno giubilare e avvertisse quelle future». L’ipotesi, affacciata dallo Stefaneschi, che sia stato qualche predicatore a parlare dell’indulgenza è certamente plausibile, tuttavia non so se si debba pensare a un «sermone mattutino tenuto nella basilica» o piuttosto a qualche predicatore itinerante per l’Urbe, ché non si spiegherebbe come mai, lanciato l’appello al mattino, la voce avesse cominciato poi a diffondersi solo al declinar del sole. E, si sa, certe voci hanno potere di diffondersi tra il popolo con la stessa rapidità con cui le scintille si propagano su un campo di stoppie: «Con questi inizi incominciò di giorno in giorno ad accrescersi la fede e la frequenza di cittadini e forestieri». Non dall’alto, dunque, ma dal basso la voce prese corpo. E, una volta partita, niente e nessuno riuscì più a fermarla.
Bonifacio VIII non volle però arrendersi. D’altronde, non aveva già decisamente avversato la decisione di Celestino V che, appena qualche anno prima, aveva allargato a dismisura i cordoni della borsa concedendo l’indulgenza plenaria a quanti, in un determinato giorno, pentiti e confessati, si fossero recati a L’Aquila, alla basilica di S. Maria di Collemaggio? Per questo motivo, riferisce ancora la nostra fonte, «il buon padre decretò che si ricercassero riscontri negli antichi libri. Ma da essi nulla venne in piena luce di quanto si cercava, forse per la negligenza dei padri, se fosse lecito intaccarne la fama; oppure perché quei libri erano andati perduti in seguito a scismi e guerre delle cui tempeste molto spesso Roma fu travagliata — ed è un motivo di pianto e non di meraviglia —, oppure perché era frutto più di fantasia che di verità».
Indagini accurate, quindi, ma da cui nulla venne fuori; e non venne fuori perché nulla c’era stato, ciò che peraltro metteva il pontefice allo scoperto, poiché senza precedenti ai quali potersi appoggiare, se non la decisione del suo immediato predecessore, sulla quale egli non poteva — né voleva — certo far leva. Intanto la voce attecchiva sempre più, diramandosi in rivoli diversi: «Alcuni di loro asserivano che nel primo giorno dell’anno secolare si cancellasse la macchia d’ogni colpa, mentre negli altri pensavano si lucrasse l’indulgenza di cento anni. E così per la durata di circa due mesi conservavano l’una e l’altra speranza insieme col dubbio, e molti accorrevano numerosi, e in turbe più compatte del solito nel giorno in cui veniva esposta l’effigie venerabile al mondo intero, detta volgarmente il Sudario ovvero la Veronica».
La domenica successiva all’ottava dell’Epifania, che in quell’anno cadeva il 17 di gennaio, la folla fu dunque particolarmente numerosa a causa della prevista ostensione della Veronica. Finì per spuntare anche un testimone che avrebbe avuto addirittura centosette anni, il quale, introdotto alla presenza del pontefice, dichiarò di avere memoria del precedente compimento di secolo, nel corso del quale il padre s’era recato a Roma per guadagnare il perdono, raccomandando poi al figlio, «se fosse arrivato al venturo anno secolare, il che egli non riteneva possibile» di recarsi lui stesso a Roma. «Noi lo interrogammo — assicura lo Stefaneschi — ed egli ci riferì le medesime notizie».
Bonifacio VIII chiese allora «il parere del Sacro Collegio dei padri circa la nuova materia dell’anno centesimo, non ancora appieno approfondita». Il papa era tutt’altro che uno sprovveduto e ben sapeva di doversi avventurare su un terreno non ancora battuto. Un sì o un no in quel frangente non potevano, peraltro, giungere senza una consultazione previa: infatti «al quesito fu data, per i meriti degli apostoli, risposta favorevole». Si giunse così alla decisione dell’indizione giubilare, resa pubblica, con la lettera Antiquorum habet fida relatio, il 22 febbraio del 1300. La data prescelta, giorno della festa della Cattedra di san Pietro, non era certo casuale, in quanto era «nella pienezza dell’autorità apostolica» (plenitudo potestatis) che il pontefice — così nella lettera — concedeva «il perdono non soltanto pieno e abbondante, anzi pienissimo di tutti i peccati».
Spinto dalla pressione pubblica e dopo non poche remore iniziali, Bonifacio VIII annunciò pertanto l’evento straordinario di quella totale remissione, di cui egli diveniva generoso largitore. Quel giorno fu dunque celebrato con particolare fasto e solennità: «Velato l’ambone di drappi di seta ricamati d’oro, ove erano saliti il presule romano coi padri, e tenuto un discorso alla folla, è infine recitata la lettera». Accogliendo la richiesta popolare, egli, nella sua plenitudo potestatis, si presentò così al mondo come magnanimus pontifex, unico detentore di quelle chiavi che sole potevano aprire lo scrigno che racchiudeva il tesoro della Chiesa.
La sua decisione intendeva in tal modo manifestare quella che era la pienezza del suo potere, la forza carismatica insita nella Chiesa gerarchica: un messaggio subitamente inteso. «Di contro alle correnti ereticali — scriveva Arsenio Frugoni — che (…) avevano negato la necessità di mediazione, per la salvezza, della Chiesa, egli lanciava la sua promessa di perdono cui avrebbe risposto, travolgente, l’ansia di salvezza dei fedeli. Le riserve, sollevate subito animosamente da frati Mendicanti, sulla reale plenarietà della indulgenza, più che da chiarificazioni dei teologi sarebbero state annientate dalla fiumana dei pellegrini che riconoscevano, per quel dono meraviglioso, nel Pontefice il Vicario di Dio».
Ma fu un trionfo di breve durata. Due anni dopo egli avrebbe riaffermato in modo solenne il suo ideale ierocratico nella lettera Unam sanctam dichiarando che nella «Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, e una temporale»: «una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la prima dal clero, la seconda dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale». Alla dissoluzione dell’impero aveva però fatto seguito l’affermazione delle potenze nazionali e si profilava ormai, all’orizzonte, una concezione laica della politica e dello Stato.
Il Giubileo del 1300 costituì così un momento apicale del pontificato bonificano, e certo restò viva, nell’animo dei testimoni, la grande fiumana dei pellegrini, che si dirigeva verso Roma come alla meta lungamente agognata e che, al contatto con l’Urbe, con le sue chiese, i suoi monumenti, con le sue stesse superbe rovine, percepiva la traccia di una memoria secolare e grandiosa di cui si sentiva parte, anche solo per un momento. Fu, dunque, come scrisse Arsenio Frugoni, «l’ultima prova del grande papato medievale».
[Fonte: L’Osservatore Romano]
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