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Come la sofferenza ha forgiato il Pontefice

La sofferenza può schiacciare, ma può anche cambiare una persona nel profondo. Papa Francesco non ha mai nascosto che sono state proprio le prove più dure a renderlo l’uomo, il sacerdote e il vescovo di Roma che abbiamo conosciuto. Nel libro Ritorniamo a sognare racconta con grande sincerità tre momenti che hanno segnato la sua vita: la malattia polmonare da ragazzo, l’isolamento in Germania e l’esilio interiore a Córdoba. Tre “deserti” che, invece di abbatterlo, sono diventati occasioni di rinascita.

1. Malattia e fragilità: il respiro rubato della giovinezza

Nel 1957, a 21 anni, Jorge Mario Bergoglio si trovò a lottare per la vita a causa di una grave infezione ai polmoni. Fu il suo primo vero incontro con la fragilità del corpo e la paura della morte.

“Per mesi non ho saputo chi ero, se sarei morto o vissuto. Nemmeno i medici sapevano se ce l’avrei fatta. Ricordo che un giorno chiesi a mia madre, abbracciandola, di dirmi se stavo per morire.”

In quei giorni difficili, due infermiere – suor Cornelia e suor Micaela – gli cambiarono la vita con la loro umanità. Non si fermarono ai protocolli, ma seppero vedere la persona dietro il paziente.

“Suor Cornelia Caraglio mi salvò la vita. Grazie al suo contatto abituale con i malati, conosceva meglio del medico ciò di cui avevano bisogno, ed ebbe il coraggio di usare quell’esperienza.”

Ma fu soprattutto il silenzio pieno di compassione di suor María Dolores a donargli una consolazione vera. Niente frasi di circostanza, solo una presenza discreta e un gesto semplice che gli è rimasto nel cuore.

“‘Stai imitando Gesù’. Non c’era bisogno che aggiungesse altro.” La sua presenza silenziosa mi donò una profonda consolazione. Da allora, quando visito i malati, parlo il meno possibile: mi limito a prendergli la mano.

2. Germania: lo sradicamento e il vuoto dell’anonimato

Nel 1986, Bergoglio si trasferì a Francoforte per lavorare alla tesi di dottorato. Fu un periodo segnato da un senso di esilio interiore e da una solitudine che pesava.

“Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. […] La solitudine di una vittoria da solo, perché non c’era nessuno a condividerla; la solitudine di non appartenere, che ti fa estraneo.”

Anche i momenti di gioia, come la vittoria dell’Argentina ai Mondiali, finirono per accentuare il senso di isolamento.

“Quando una ragazza giapponese scrisse ‘Viva l’Argentina’ sulla lavagna, gli altri si misero a ridere. Entrò la professoressa, disse di cancellarla e chiuse l’argomento.”

Questa distanza, questa “assenza di patria”, gli ha fatto capire cosa significa non essere accolti e quanto sia prezioso ciò che si lascia alle spalle. È stata una vera scuola di esilio.

3. Córdoba: l’umiliazione come grazia

Dal 1990 al 1992, Bergoglio ha vissuto un periodo di “esilio” a Córdoba, in una residenza gesuita. Dopo la fine del suo mandato da provinciale, fu allontanato dall’insegnamento e dagli incarichi di responsabilità. Si ritrovò improvvisamente solo, con un senso di fallimento e di vuoto.

In un’intervista con Sergio Rubin (Il gesuita), racconta senza filtri:

“Fu il periodo più oscuro della mia vita. Avevo bisogno di essere seguito. Per sei mesi il medico mi prescrisse un calmante da assumere ogni giorno.”

Nel libro Ritorniamo a sognare, aggiunge:

“Trascorsi là un anno, dieci mesi e tredici giorni. […] Uno sradicamento di quel tipo, con cui ti spediscono in un angolo sperduto e ti mettono a fare il supplente, sconvolge tutto. Le tue abitudini, i riflessi comportamentali, le linee di riferimento anchilosate nel tempo, tutto questo è andato all’aria e devi imparare a vivere da capo, a rimettere insieme l’esistenza.”

Córdoba è stata per lui una vera purificazione, una scuola di umiltà, pazienza e misericordia.

“Mi ha lasciato un’empatia nuova con i deboli e gli indifesi. E pazienza, molta pazienza, ovvero il dono di capire che per le cose importanti ci vuole tempo, che il cambiamento è organico, che ci sono limiti e dobbiamo operare al loro interno e mantenere al tempo stesso gli occhi sull’orizzonte, come ha fatto Gesù.”

“È stato un periodo di crescita in molti sensi, come tornare a germogliare dopo una potatura a fondo.”

Una sofferenza trasformata

Queste esperienze non lo hanno spezzato, ma lo hanno reso più attento, più silenzioso, più profondo. La malattia, l’esilio e l’umiliazione gli hanno insegnato a vedere “il grande nel piccolo” e a stare vicino a chi soffre, senza parole inutili.

“Ne ho imparato che soffri molto, ma se lasci che ti cambi, ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore.”

Oggi Papa Francesco è un testimone vivente della compassione. Le sue “notti oscure” sono diventate, col tempo, una luce per tanti. La sua storia ci ricorda che anche dal dolore più profondo può nascere una speranza nuova, capace di illuminare il cammino di tutti.

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