7Il mio popolo è duro a convertirsi:
chiamato a guardare in alto,
nessuno sa sollevare lo sguardo.
8Come potrei abbandonarti, Èfraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Adma,
ridurti allo stato di Seboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
9Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Èfraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò da te nella mia ira.
10Seguiranno il Signore
ed egli ruggirà come un leone:
quando ruggirà,
accorreranno i suoi figli dall’occidente,
11accorreranno come uccelli dall’Egitto,
come colombe dall’Assiria
e li farò abitare nelle loro case.
Oracolo del Signore.

 

Continua il discorso di Dio, quasi fosse un soliloquio a cui il profeta ha il permesso di accedere con il compito poi di trasmetterlo. Molto bella questa introspezione psicologica che permette di entrare nel mondo interiore di Dio, facendoci partecipi dei suoi sentimenti. Sebbene sia un procedimento umano e una tecnica letteraria, ricordiamo che il profeta, in quanto uomo di Dio, ha con lui una familiarità sconosciuta ai comuni mortali. Non sorprende, quindi, che suo tramite anche noi abbiamo accesso ai sentimenti divini. Non è forse l’alleanza un rapporto di comunione tra Dio e il suo popolo? Il profeta ci aiuta a capire quanto tale alleanza sia frantumata dall’infedeltà del popolo e, nello stesso tempo, quanto profondo e insistente sia l’amore divino nel voler ripristinare un rapporto corretto riportandolo sui binari di una reciproca intesa.

Il punto di partenza manifesta l’amara constatazione di Dio che vede il suo popolo ostinarsi nel rifiuto di accogliere l’amore divino, ovviamente per crogiolarsi in amori umani più a portata di comprensione e di realizzazione, anche se anticamera di negatività, di disgusto e di infedeltà.

Segue la bella immagine degli occhi puntati verso la terra anziché pronti a guardare in alto. In tutte le religioni la divinità è collocata in alto che richiamava l’dea dell’irraggiungibile, a differenza del basso che ci si poteva illudere di avere sotto controllo. Si tratta di una ingenuità che tuttavia condividiamo anche noi quando diciamo «Padre nostro che sei nei cieli», indicando una ideale collocazione propria della divinità. Sicuramente non si tratta in primo luogo di un riferimento spaziale, però l’immensità dei cieli, anche se la nostra mirabolante tecnica ci permette di andare molto in alto, hanno in sé qualcosa di quasi infinito che ci aiuta a collocare Dio in una dimensione irraggiungibile.

Dopo la costatazione che il popolo non si converte a Dio, preferendo approdare ad altri lidi di presunta soddisfazione, ci si aspetterebbe la minaccia di un castigo o lo stato di abbandono, come in tanti altri passi. Invece, no. Abbiamo un’impennata lirica, uno di quei voli pindarici che permettono allo spirito di respirare l’aria ossigenata e rarefatta del bene e del bello. Il Signore con una domanda retorica si chiede come potrebbe abbandonare Efraim/Israele. Il parallelismo conferma quanto già detto in precedenza che nominare una tribù equivale tante volte ad indicare tutto il popolo. Il parallelismo, cioè le prima due frasi del v. 8 che ripetono con parole diverse lo stesso concetto, confermano la sostanziale uguaglianza tra Efraim e Israele. La domanda è detta retorica quando chiede qualcosa – è appunto una domanda – ma il richiedente conosce già la risposta. Non è una domanda per sapere, bensì per esprimere sorpresa, meraviglia, l’assurdità della richiesta. Dio non può abbandonare il suo popolo, anche se questi ha dimenticato tanti benefici e amore ricevuti.  Una nota di concretezza geografica con la citazione di Adma e Seboìm richiama due città della pentapoli a sud del Mar Morto, tipico esempio di corruzione e depravazione come lo erano le due più note Sodoma e Gomorra. Il forte richiamo alla desolazione prepara il terreno a una delle espressioni più elevate e romantiche del libro di Osea, anzi, di tutto l’Antico Testamento. Seguono le parole che trasmettono i sentimenti profondi di un innamorato, capace di esprimere il suo mondo interiore con vibranti parole ricche di risonanze interiori da fare invidia ai moderni psicanalisti.

Segue la dichiarazione della sua identità più profonda come causa di un atteggiamento insolito, com’è, appunto, quello del perdono: «Perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te». Noi uomini siamo spesso vittime di sentimenti di invidia, di rivincita sul nemico, di aspra opposizione o, nel migliore dei casi, di fredda indifferenza e abissale distanza con coloro con i quali abbiamo rapporti infartuati. “Umano e normale” potremmo tentare di giustificare tale atteggiamento, anche se ingiusto e per nulla produttivo. Purtroppo, potremmo dire che si verifica spesso. Il comportamento di Dio, inusuale e rivoluzionario, oltre ad essere squisitamente benefico per il popolo ribelle e per noi peccatori in generale, gode l’indiscusso vantaggio di essere esemplare. Sarà anche il comportamento di Gesù sulla croce, quando perdona i suoi assassini, riprodotto poi esemplarmente da santo Stefano, primo martire, che morirà perdonando coloro che lo stanno uccidendo. L’esperienza insegna che violenza genera violenza, invidia e rancore sono semi di discordia e inimicizia, impedendo la costruzione di una società serena e solidale.

Il brano si chiude sulle dolci note dell’imitazione: il popolo segue il Signore nel suo atteggiamento di pace e di perdono, il deserto torna a fiorire di vita perché gli animi si sono rasserenati e indirizzati verso il Signore. Il sigillo è dato dal versetto «li farò abitare nelle loro case», espressione di una normale e serena quotidianità che, aliena da risentimenti negativi o da volontà vendicativa, si incanala nella fedele e amorosa osservanza alla volontà divina, in un abbraccio di vero amore. La casa è icona di familiarità, serenità e sicurezza. L’alleanza sarà allora ripristinata, Dio e il suo popolo torneranno a guardarsi con amore, a ricercarsi per vivere in una esaltante comunione di vita.