Intervista con il cardinale Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia
«Evangelizzarsi» e non «evangelizzare». È questa la preoccupazione principale delle prediche di Quaresima. Lo sottolinea il cardinale Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, in questa intervista a «L’Osservatore Romano», spiegando anche la scelta del tema: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15). Le meditazioni, secondo il calendario reso noto dalla Prefettura della casa pontificia, si tengono per cinque venerdì consecutivi a partire da domani, 23 febbraio, fino al 22 marzo. L’appuntamento è nell’Aula Paolo VI con inizio alle ore 9 e sono invitati a parteciparvi cardinali, arcivescovi e vescovi, prelati della Famiglia pontificia, dipendenti della Curia romana, del Governatorato vaticano e del Vicariato di Roma, i superiori generali o i procuratori degli ordini religiosi facenti parte della cappella pontificia, seminaristi e studenti dei collegi dell’Urbe, gentiluomini di Sua Santità, addetti di Anticamera e tutti coloro che lo desiderano.
Perché proprio questo tema?
La scelta dell’argomento di una predica, o di un ciclo di prediche come è la Quaresima, non è come la scelta dell’argomento di un libro da scrivere o di una conferenza da dare su un determinato tema. È sempre frutto di due movimenti: della Parola che viene verso di te e della tua reazione ad essa. Ci sono, certamente, motivi contingenti (nel presente caso, un risvegliato interesse per il Vangelo di Giovanni), ma la Parola di Dio non si inventa; si accoglie! Non solo da parte dell’ascoltatore, ma, ancor prima, da parte del predicatore.
Cosa significa innalzare il figlio dell’uomo?
L’esegesi biblica ha da tempo chiarito che quello che Giovanni chiama “essere innalzato” o “essere elevato da terra” non si riferisce alla glorificazione finale di Gesù, cioè alla sua risurrezione e ascensione al cielo, ma alla sua elevazione sulla croce. Questa però è vista dall’Evangelista, non solo come il punto estremo dell’abbassamento e dell’umiliazione di Cristo, ma anche — e forse soprattutto — come l’inizio della sua esaltazione. «Non vi era ancora lo Spirito – si legge in Giovanni 7, 39 – perché Gesù non era stato ancora glorificato». La croce è per l’evangelista il momento in cui tutte le potenze del male sono vinte ed egli può «effondere lo Spirito» sull’umanità.
Quanto ci sarà nelle sue riflessioni riguardo al bisogno di evangelizzare?
Come ho precisato nel programma, la preoccupazione principale di questa predicazione quaresimale non è “evangelizzare”, ma “evangelizzarsi”. Quasi sempre, nel contesto del governo della Chiesa, ci si deve occupare di problemi ecclesiali, dottrinali o disciplinari; occorre che ci sia un momento in cui l’obbiettivo (o la spada a doppio taglio!) non sia rivolto all’esterno, ma all’interno. E questo non genericamente, intendendo per “interno” l’interno che è la Chiesa rispetto alla società, ma la vita interiore di ognuno di noi. Questa, si sa, è la condizione indispensabile per poter portare il Vangelo ad altri: averlo dentro di sé, non solo tra le mani o nella mente. Nemo dat quod non habet, dice un detto tradizionale: nessuno dà ciò che non ha.
Come possiamo rendere l’immagine che abbiamo di Gesù sempre più conforme a quella vera?
Da ormai tre secoli — rinascimento, illuminismo, modernismo — tutto lo sforzo della scienza biblica è stato concentrato su questo problema. Dapprima e per molto tempo si era convinti che per accostarsi al vero Gesù bisognasse lasciare da parte la fede e il dogma della Chiesa e far posto alla scienza storica. In tempi a noi vicini, si è assistito al movimento contrario: per incontrare il vero Gesù occorre lasciare da parte la storia e attaccarsi alla fede, intesa, questa, in senso esistenziale (Barth, Bultmann); in tempi ancor più vicini (cosiddetti post-moderni), si è pensato che per trovare il vero Gesù bisogna lasciare da parte l’una e l’altra cosa, sia la fede che la storia, e affidarsi a qualche brandello di (pseudo) nuovi documenti (il Vangelo gnostico di Tommaso!) e alla propria reazione di fronte al testo così come sta. Sano pluralismo? No semplice relativismo! A ogni fase di questa ricerca si è dovuto costatare che il Gesù raggiunto era semplicemente quello che la cultura del momento esigeva, senza accorgersi che la visione che si pretendeva sostituire a quelle passate non faceva che continuare la serie. L’immagine è irriverente, ma efficace: Gesù, un manichino pronto a indossare il vestito che la moda del momento impone.
C’è una strada più sicura per comprendere chi veramente sia Cristo?
Sì che c’è, e ce l’ha indicata lui stesso, Gesù. «Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 26). «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me» (Gv 15, 26). Se uno pretende scoprire chi era il “vero” Gesù, ignorando completamente questo” tramite” — sia egli credente o non credente —, di lui si deve dire, con il nostro Dante Alighieri, sua disianza vuol volar senz’ali. Questo non significa minimamente mettere da parte la critica storica (rinnegherei il mio stesso mestiere!). Significa rassegnarsi a “convivere”: la fede senza la storia è cieca; la storia senza la fede è muta. O, ancor meglio, è vuota!
[Fonte: L’Osservatore Romano]
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